Anche il Tribunale di Rimini si è occupato di recente della responsabilità penale in ambito sportivo. O meglio, delle lesioni subite da un calciatore nel corso di una partita di calcio dilettantistico. Il caso sottoposto all’attenzione del Tribunale Riminese, che ha condotto il Pubblico Ministero a richiedere l’archiviazione del procedimento penale, riguardava uno scontro di gioco tra due avversari a seguito del quale la persona offesa veniva colpita con una forte ginocchiata al fianco che ne avrebbe successivamente determinato l’asportazione del rene. In applicazione di un principio oramai consolidato in giurisprudenza, anche il sostituto procuratore Riminese, ha deciso di archiviare il caso ritenendo che, con la sua azione di gioco, la persona indagata non avesse superato la cosiddetta soglia del “rischio consentito”.
Prima di ogni altra considerazione ed ai fini di una più felice comprensione, è utile distinguere l’attività sportiva in senso lato in tre grandi categorie: l’attività sportiva necessariamente violenta, come il pugilato, ove la violenza è un elemento strutturale dell’attività; quella a violenza eventuale, laddove, invece, il contatto fisico è possibile ma non necessario, come il calcio o il basket; e, infine, tutte quelle attività dove la violenza è alla radice esclusa dalla tipologia di attività esercitata (nuoto, tennis, l’atletica leggera). Ebbene, mentre in quest’ultimo caso non vi sono problemi di sorta atteso che la violenza non è mai consentita, maggiori problematiche nascono dalle prime due categorie per le quali, invece, occorre stabilire se e quando l’ordinamento consenta di ritenere non punibili le offese provocate nell’esercizio dell’attività sportiva.
Questo il problema di fondo che si è posto il Tribunale nel caso di specie. Se, cioè, ritenere l’indagato penalmente responsabile dell’evento lesivo da lui “causato” nell’esercizio di una lecita attività sportiva.
Concentrando l’attenzione sugli sport a cosiddetta violenza eventuale, come appunto il calcio, è innanzitutto necessario stabilire se la violenza esercitata nell’esercizio dell’attività ecceda o meno i limiti consentiti dai regolamenti di quella particolare disciplina. Ovviamente, occorre tenere presente il tipo di sport esercitato. Praticando il calcio, ad esempio, è “normale” e fisiologico essere protagonisti di infortuni ed episodi cosiddetti “violenti”. O meglio, ciò che si deve preliminarmente stabilire è quando, in caso di episodi violenti, si fuoriesca dal campo del semplice illecito sportivo per entrare in quello dell’illecito penale. Tale distinzione, ormai del tutto pacifica sia in dottrina sia in giurisprudenza, deve essere ricercata nella volontarietà o meno dell’atto illecito: saranno quindi considerati meri illeciti sportivi e come tali non punibili penalmente tutte quelle lesioni frutto di violazioni involontarie dei regolamenti poste in essere per incapacità, scarsa accortezza, semplice casualità, ecc. Saranno, per contro, considerati illeciti penali tutte quelle lesioni cagionate volontariamente durante una competizione sportiva, laddove la gara sia solo un pretesto per l’offesa. Non esistono, quindi, problemi di interpretazioni ogni qual volta la violenza venga esercita, pur nell’ambito della competizione sportiva, con volontarietà. In tali casi, ovviamente, il responsabile della violenza ne risponderà come in qualunque altro caso di vita quotidiana. Ad esempio, è il caso del calciatore che, a gioco fermo e con palla lontana, colpisca l’avversario con un pugno al volto. E’ evidente che, in questi casi, non si possa mai invocare una causa di giustificazione “sportiva”, essendo la partita solo un pretesto per la condotta violenta.
Ben diverso è, invece, il caso sottoposto alle indagini del Procuratore di Rimini. Infatti, il giocatore responsabile della violenza, senza alcuna violazione delle regole del gioco, si scontrava fortuitamente con l’avversario andandolo a colpire violentemente nel fianco. Ebbene, in questo caso, che potremmo definire di “scuola”, per pervenire a determinare la responsabilità penale in capo all’agente, occorre dimostrare che quest’ultimo, con la sua condotta, abbia superato quello che comunemente viene definito il “rischio consentito”.
Il nostro ordinamento, per giustificare la non punibilità di certe condotte “violente”, introduce il limite del cosiddetto rischio consentito, ovvero, nell’esercizio di una attività sportiva è necessario, oltre al consenso dell’atleta alla partecipazione alla gara, anche il rispetto delle regole del gioco. In buona sostanza, si ritiene, per costante giurisprudenza, che la condotta di uno sportivo, nella specie di un calciatore, potrà ritenersi lecita non solo quando rispetti le regole specifiche della disciplina praticata, ma anche quando, pur violando le regole del gioco, non superi il cosiddetto rischio consentito. Si tratta, cioè, di una serie di comportamenti “scriminati” legati all’attività sportiva nel senso che, qualora li stessi comportamenti fossero mantenuti al di fuori di un’attività sportiva allora si verterebbe in un’attività penalmente (o civilmente) rilevante. La concorde giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, considera pertanto condotte penalmente rilevanti quelle che, superando il rischio consentito, pongono a repentaglio l’incolumità fisica dei giocatori producendo una lesione all’integrità fisica. Al contempo, è pacifica nel ritenere esente da responsabilità quell’atleta che, pur nel rispetto delle regole del gioco, realizzi involontariamente un danno all’avversario.
Ad essere più precisi, si rientra nell’ambito delle cosiddette scriminanti non codificate dell’esercizio dell’attività sportiva: quando, in pratica, le lesioni nel corso di una competizione sportiva siano procurate nel rispetto delle regole del gioco e senza superare la soglia del cosiddetto rischio consentito. La Suprema Corte di legittimità, in proposito, è chiara nel prevedere che, in tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva, quando i comportamenti violenti non oltrepassino la soglia del rischio consentito essi appartengono alla categoria dei meri illeciti sportivi penalmente irrilevanti (Cass. Pen. Sez. V, 2 giugno 2000, n. 8910).
Infatti, ogni qual volta si verta in lesioni nell’ambito di un’attività sportiva, per potersi pervenire ad una affermazione di penale responsabilità occorre, innanzitutto, che l’autore del fatto abbia volontariamente violato i regolamenti di quella disciplina (in modo tale da superare il limite di lealtà sportiva posto a fondamento di quella particolare competizione) ed allora sarà chiamato a risponderne a titolo di dolo, colpa o preterintenzione.
Ebbene, è evidente che nel caso sottoposto all’attenzione del Tribunale Riminese, non avendo l’indagato violato alcun regolamento di gioco nessun rimprovero può essere allo stesso attribuito. Ma ogni conseguenza dannosa viene dall’ordinamento tollerata e per l’effetto scriminata: esiste costante e pacifica Giurisprudenza di legittimità in tal senso.
A titolo esemplificativo e di sicuro pregio giuridico è, a proposito, la decisione della Corte di legittimità chiamata a pronunciarsi nel caso di un portiere di calcio colpito con una gomitata all’addome da un giocatore avversario, laddove ricorda la Corte come non sia sufficiente violare le regole tecniche di un determinato gioco affinché possa dirsi penalmente rilevante il danno cagionato a terzi, se e quando ciò sia avvenuto quale conseguenza fisiologica dell’azione. Secondo i giudici di legittimità: “in materia di lesioni personali derivanti dalla pratica dello sport, le elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali hanno, da tempo, definito i contorni della nozione di illecito sportivo, nozione che ricomprende tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni delle regole che governano lo svolgimento di una certa disciplina agonistica, non sono penalmente perseguibili, neppure quando risultano pregiudizievoli per l’integrità fisica di un giocatore avversario, in quanto non superano la soglia del c.d. rischio consentito“. E ancora: “si tratta di un’area di non punibilità, la cui giustificazione teorica non può che essere individuata nella dinamica di una condizione scriminante……”, in particolare “nell’area delle cause giustificazione c.d. non codificate in considerazione dell’interesse primario che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport” (Cass. Pen., Sez. V, 2005 n. 19473).
In buona sostanza, ne consegue che, qualora la condotta dell’agente non sia contraria alle regole tecniche (come nel caso analizzato), il giocatore autore di una lesione (ma rispettoso delle regole del gioco) non sarà perseguibile penalmente stante il mancato superamento della soglia del rischio consentito. Quindi, anche in presenza di lesioni gravi, la condotta “lesiva” comunque conforme ai regolamenti di quella particolare disciplina sportiva sarà tollerata dall’ordinamento escludendo per l’effetto ogni responsabilità penale in capo all’autore.
In pratica, secondo la prevalente giurisprudenza, non vi è superamento del rischio consentito quando vengano osservate le regole del gioco ovvero quando esse, nella foga agonistica vengano involontariamente violate. Diverso discorso, invece, nel caso di una violazione volontaria ove i fatti lesivi potranno dar luogo ad un eventuale responsabilità penale (Cass. Pen. Sez. V, 2 giugno 2000, n. 8910).
E ancora: “in tema di lesioni cagionate nel contesto di un’attività sportiva si verte nel superamento del c.d. rischio consentito ogni qual volta l’agente realizzi l’evento mediante una violazione volontaria delle regole del gioco”. (Cass. Pen. Sez. IV, 25 settembre 2003, n. 39204 e in senso conforme, Cass. Pen. Sez. IV, 20 giugno 2001, n. 24942, Cass. Pen. Sez. IV, 27 marzo 2001, n. 24942, Tribunale di Montepulciano, 10 gennaio 2002).
In conclusione, non si può non essere d’accordo con questo prevalente orientamento, stante, soprattutto, la rilevanza sociale e culturale che la pratica sportiva assume nella nostra società e che sarebbe, inevitabilmente, destituita di significato qualora ogni “incidente” venisse portato nelle già sin troppo intasate aule dei nostri tribunali.