Come noto, accanto alla procedura ordinaria rappresentata dal ricorso all’autorità giudiziaria le parti possono scegliere di demandare la risoluzione di determinate controversie alla decisione di uno o più arbitri, attivando un giudizio privato. Un procedimento decisamente più veloce di quello ordinario.
Nella prassi, esistono principalmente due forme di giudizio arbitrale: quella rituale ed irrituale.
A fianco dell’arbitrato disciplinato dal codice di rito si è venuta, infatti, sviluppando un’altra forma di definizione delle controversie, elaborata dalla dottrina e dalla pratica, ammessa dalla giurisprudenza e che è stato denominato arbitrato improprio, irrituale o libero.
Secondo autorevoli opinioni dottrinarie, arbitrato rituale e irrituale sarebbero espressioni di un unico fenomeno negoziale, alternativo al ricorso al giudice ordinario e si differenzierebbero tra di essi solamente in quanto attraverso l’arbitrato rituale le parti intendono ottenere effetti esecutivi e attraverso quello irrituale esse intendono ottenere effetti solo negoziali e non un lodo ma un contratto.
Ad ogni buon conto, secondo quello che viene considerato l’insegnamento tradizionale, l’arbitrato rituale ricorre quando le parti di una controversia demandano agli arbitri/o l’esercizio di una giurisdizione, concorrente con quella ordinaria, per la risoluzione della lite; si ha, invece, un arbitrato irrituale (o libero) quando agli arbitri/o è conferita la risoluzione di un rapporto controverso mediante una dichiarazione di volontà che viene imputata alle stesse parti del rapporto.
Nella prima ipotesi, l’arbitrato è espressamente disciplinato dal Codice di procedura civile; nella seconda, invece, l’arbitrato non pare trovare un’esplicita regolamentazione legislativa e si concretizza nell’accordo con il quale al terzo viene affidato il compito di risolvere la controversia con una dichiarazione sostanzialmente transattiva o accertativa dei diritti e degli obblighi delle parti, a seconda del contenuto dell’incarico.
Ciò posto, la qualificazione in termini di ritualità o irritualità dell’arbitrato non può prescindere da un’attenta analisi della clausola compromissoria così come formulata dalle parti. Deve ricordarsi tuttavia che – sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale dominante (secondo l’indirizzo costante della Cassazione, cfr. per tutte, Cass., Sez. III civ., 12 novembre 1994, n. 6202, l’interpretazione della clausola compromissoria e del compromesso, alla stregua di ogni altra espressione della volontà delle parti, spetta esclusivamente al giudice di merito, dovendosi all’uopo esaminare circostanze di fatto, valutare comportamenti, accertare il significato grammaticale delle espressioni usate ed indagare circa la comune intenzione delle parti. Pertanto, la decisione sul punto, se basata su un’esatta applicazione delle regole di ermeneutica e correttamente motivata, non è soggetta a controllo in sede di legittimità) – l’indagine dell’interprete non può fermarsi alla superficie delle espressioni letterali adottate, ma deve accertare la concreta volontà negoziale che ad essa sottende. In tale ottica, se da un lato viene generalmente affermata la ritualità dell’arbitrato quando nella clausola compromissoria compaiono espressioni come controversia, giudizio, giudicare (quest’ultima espressione declinata in tutte le forme verbali), per altro verso non si ritiene che valga ad escludere la ritualità dell’arbitrato la circostanza che la clausola preveda “l’esonero degli arbitri dalle norme di procedura”: tale tipo di pattuizione è, infatti, implicitamente ammessa anche nell’arbitrato rituale ex art. 816, commi 2 e 3, cod. proc. civ.; né decisivo, sarà ogni qual volta siano usate espressioni quali “decidere secondo equità” o “pro bono et aequo”, in quanto anche nell’ arbitrato rituale può decidersi secondo equità; neppure sarà determinante qualora venga stabilito che il lodo non sarà impugnabile, dovendo tale espressione essere interpretata alla luce dell’art. 829, comma 2, cod. proc. civ., in presenza della previsione di un giudizio di equità. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, la semplice circostanza che la clausola compromissoria contenga un rinvio al giudizio secondo equità non viene automaticamente ritenuta di per sé sintomatica dell’irritualità dell’arbitrato (cfr. al riguardo, Cass., Sez. I civ., 1° febbraio 1999, n. 833, che conferma l’orientamento secondo cui il rinvio al giudizio pro bono et aequo, alla composizione amichevole del contrasto, all’inappellabilità della decisione non sono elementi di per sé soli sufficienti a stigmatizzare l’irritualità dell’ arbitrato).
E’ necessaria, in buona sostanza, la convergenza, nel senso dell’irritualità, di entrambi i criteri ermeneutici individuati dalla giurisprudenza: quello testuale fondato sull’interpretazione letterale della clausola statutaria e quello (prevalente) di natura sostanziale, desumibile dalle regole di ermeneutica contrattuale, volto ad accertare le volontà delle parti.
La suddetta interpretazione è, tra l’altro, conforme alla riforma apportata dal Dlgs. N. 40 del 2006, in base alla quale costituendo l’arbitrato irrituale un istituto atipico, derogatorio dell’istituto tipico regolato dalla legge e sfornito delle garanzie all’uopo previste dal legislatore, in mancanza di una volontà derogatoria chiaramente desumibile dal compromesso o dalla clausola compromissoria, il riferimento delle parti alla soluzione di determinate controversie all’arbitrato, normalmente costituisce espressione della volontà di far riferimento all’istituto tipico dell’arbitrato regolato dal codice di rito (cfr. Tribunale di Bari, sez. IV, 25/11/2009 n. 3527).